Forse i miei l’hanno sempre saputo ma non lo hanno mai voluto ammettere, non erano in grado di accettarlo o forse speravano che “guarissi”. Si, loro in fondo al cuore hanno sempre pensato e continuano a pensare che le persone come me siano in un certo qual modo ammalate. Oggi, questa visione è superata o dovrebbe esserlo e non si parla più di malattia riferita ai gay ma il cambio di passo non è avvenuto sul serio, oggi il gay è comunque considerato un uomo con una certa deviazione mentale.
Ricordo come fosse adesso una festa di carnevale, anzi i preparativi per una festa di carnevale. Avrò avuto sei o sette anni e volevo vestirmi da fatina. A casa mia scoppiò il putiferio… la sorpresa che la mia proposta scatenò fu tale che nessuno, compresa mia sorella, chiese il perché della mia scelta.
Peraltro, io non avevo un perché, e questa sensazione di vuoto la ricordo molto bene. Avevo solo il desiderio di vestirmi da fatina, mi piaceva quel tipo di vestito tutto leggero e ricco di veli e poi l’idea di poter fare le magie e realizzare i desideri mi faceva star bene. Non riuscivo a capire tanta sorpresa. Mia sorella, di tre anni più grande di me, si sarebbe vestita da cowboy. Era il secondo anno che sceglieva quella maschera con tanto di pistole, cinturone e cappello di cuoio e nessuno aveva mai detto niente. Non era molto femminile… anzi, era proprio da maschio. Ma nessuno aveva detto niente: allora perché io non potevo vestirmi da fatina? Dopo una settimana di silenzio sull’argomento ho cercato tutto il coraggio necessario dentro di me e ho domandato a mia madre se allora avrei potuto vestirmi da fatina. Era venuta a prendermi a scuola come ogni venerdì, gli altri giorni veniva la domestica a prendermi perché mamma era impegnata con le sue attività di beneficienza. Insieme alle sue amiche frequentavano un circolo sportivo dove si svolgevano molte altre attività oltre quelle sportive e mia mamma che di sportivo non aveva niente finalmente si trovava nel posto giusto dove incanalare le sue energie. Se avessi conquistato il suo si avrei avuto la strada spianata con mio padre che non aveva mai abbastanza tempo da dedicare ai parapiglia familiari, e avrei potuto sperare di cercare il vestito nell’ultimo fine settimana utile prima del giovedì grasso, giorno in cui la scuola aveva programmato la festa mascherata.
Mi arrivò un sonoro NO. Mia mamma, senza nemmeno guardarmi in faccia mi disse che non poteva assecondare la mia richiesta e soprattutto che non capiva proprio perché la facessi una richiesta tanto strana. Cercai di spiegarle che mia sorella si vestiva da maschio per il secondo anno e che nessuno aveva mai detto niente, nemmeno che era strana. Non capivo perché invece era così strano che volessi vestirmi da femmina e me lo volevano impedire. Ne venne fuori un confronto serrato con mia madre che cercava di mantenere la calma, ma ci riusciva malissimo, ed io che strepitavo insistendo per il mio vestito da fatina. Non seppe darmi una spiegazione a me comprensibile, continuava a dire a tono sempre più alto e voce sempre più asciutta che non stava bene. Lo ricordo benissimo… se non avesse urlato sarebbe sembrata una cantilena “Non sta bene che ti vesti da femmina!”. Solo questa frase, ripetuta e ripetuta.
La sera mio padre non chiese niente e io non dissi nulla ero ancora arrabbiatissimo e non mi andava di parlare. Così continuò ancora il gioco del silenzio. Mia sorella era contentissima con le sue pistole nuove di zecca e vedendo i miei occhi rattristati ad un certo punto disse: “Se ti piace tanto fare le magie e realizzare i desideri perché non ti vesti da mago?” La domanda arrivò sul tavolo da pranzo come la croce rossa in un avamposto di guerra, mia madre e mio padre si tolsero dal viso la maschera del silenzio e cavalcarono subito l’idea dicendo che era bellissima e che il mago era come la fatina… che avremmo cercato la maschera il giorno dopo… che avremmo comprato la più bella… che avrei potuto fare tutte le magie che volevo e realizzare tutti i desideri che mi avrebbero chiesto. Il quel momento ho capito, lo ricordo benissimo, che non avevo spazio per insistere, l’argomento era chiuso, o mi facevo piacere quella maschera o restavo senza, e così decisi… e mago sia! Non diedi mai molto peso a quell’evento, forse avrei dovuto ma forse ero troppo piccolo, e non diedi mai peso nemmeno al fatto che spesso per giocare indossavo i vesti di mia sorella e lei rideva come una pazza finché non ho iniziato a giocare con i suoi primi trucchi da ragazzina e allora si arrabbiava tantissimo. Ma di questi giochi i miei genitori non sapevano nulla.
Sono sempre stato un ragazzino delicato, non di salute, ma di modi, attento agli altri e molto riservato. Vestivo bene, forse un po’ diverso dagli altri ragazzini ma io mi sentivo a mio agio. Qualche problema è iniziato alle medie con i miei compagni di classe molto più scavezzacollo di me, mi prendevano in giro perché non giocavo a calcio, non dicevo le parolacce, non disturbavo le ragazzine… mi chiamavano il signorino. Andavo molto bene a scuola, mi piaceva studiare e quindi i miei genitori non avevano problemi con me, anzi mi lasciavano molto libero ma spesso non sapevo cosa fare di tutta la mia libertà finché non ho conosciuto una ragazzina che aveva le mie stesse passioni. Le piaceva guardare il cielo, studiare le costellazioni, vagare nell’universo con il telescopio alla ricerca dei propri sogni. Molto spesso andavamo al cinema o a cercare qualche libro in libreria che poi ci scambiavamo e commentavamo. La cosa andò avanti per un bel po', forse un anno, le dovevo piacere molto, e non me ne sono accorto anzi, oggi posso dire che non ci ho proprio pensato. Stavo bene con lei e mi bastava, anzi ero felice, ma a lei non bastava affatto. Voleva di più ma in quel momento non ero in grado di darle nulla. Non sentivo la stessa attrazione, anche se eravamo ragazzini e quindi sto parlando di qualche bacetto o toccatina ma niente, non ci fu niente, e lei alla fine se ne andò lasciandomi solo con i miei dubbi dei quali non le avevo mai parlato. A tredici anni i primi punti interrogativi cominciavano a essere ben presenti nei miei ragionamenti ma non sapevo a chi parlarne e come parlarne, cosa dire. Cercavo delle giustificazioni dentro me stesso, non sapevo bene nemmeno per cosa, ma la sensazione che mi rimaneva addosso era di essere diverso dai miei amici. Arrivato al liceo, dopo l’estate, le cose cambiarono, o almeno per un attimo l’ho creduto. Passai le vacanze dai miei nonni. Mio nonno mi portava a pesca al fiume e mi raccontava sempre storie di guerra, della guerra che aveva combattuto lui, della fame patita, del freddo e della paura, anche se in campagna la fame si era sentita meno perché c’era la terra che dava da mangiare. Zappavamo insieme, piantavamo, pulivamo l’orto, governavamo le galline anche insieme ai ragazzini del podere accanto e poi quando erano finiti i lavori della giornata andavamo in bicicletta in su e giù per le colline. Eravamo in cinque, più o meno tutti coetanei, solo uno un po' più grande, un paio d’anni non tanto, ma a quell’età son tanti. Lui aveva avuto già la sua prima esperienza con una giovane donna del paese a cui piacevano tanto i ragazzi molto giovani, le piaceva farli diventare uomini… Così Antonio raccontava e così era andata con lui, diceva. Da quel giorno si sentiva uomo, diceva. Si chiamava Annuccia, la conoscevano tutti in paese, aveva un banco di frutta e verdura al mercato del giovedì e poi gli altri giorni vendeva i suoi prodotti direttamente al suo orto. Un giorno Antonio era andato da lei per comprare le cose che gli aveva chiesto la madre e l’aveva trovata in sottana che si spazzolava i capelli, era rimasto incantato dalle gambe che sbucavano fuori da quel tessuto tanto leggero e morbido e lei lo aveva provocato fino a farlo sudare. I nostri tramonti, prima di andare a cena, spesso li passavamo ad ascoltare quella storia e ogni volta Antonio aggiungeva piccoli particolari. Gli aveva fatto togliere la maglietta… e le scarpe. Era rimasto solo con i pantaloncini corti in mezzo alla stanza. Lei lo guardava e gli girava intorno mettendogli le mani nei capelli fino a che… non ha più resistito e l’ha presa. Raccontava e diceva proprio così – l’ho presa, l’ho presa e basta! Con quella voce ancora da ragazzino che mi è rimasta nella testa. Un giorno, verso la fine della vacanza, mancavano poco al rientro in città, anche io sono andato a comprare delle cose dalla Annuccia, anche se i nonni non mi avevano chiesto niente. Non l’ho trovata in sottana e non faceva nemmeno così caldo però lei ha capito subito perché ero lì a quell’ora insolita e io non ho dovuto fare niente. È stato come ballare il tango, ti devi lasciare andare quando balli il tango, devi fidarti del tuo cavaliere e non devi fare altro. E così è stato, mi sono lasciato andare, trasportare da quella donna nella curiosità che mi aveva messo Antonio e in quel momento mi sono sentito uguale agli altri ragazzini. È stato un attimo. E l’attimo me lo sono goduto. Ho capito però cosa significasse veramente per me quel vestito da fatina e ho dovuto farci i conti, da solo. Ancora oggi, e son passati vent’anni, parlare con i miei genitori, raccontare chi sono, come sono… i miei desideri, i miei sogni, languisce nel sottobosco di “un non voglio sapere più di quel che appare!”.
Dalla Rubrica Storie nel cassetto di Luisanda Dell’Aria
Roma 19 maggio 2022
Ricordo come fosse adesso una festa di carnevale, anzi i preparativi per una festa di carnevale. Avrò avuto sei o sette anni e volevo vestirmi da fatina. A casa mia scoppiò il putiferio… la sorpresa che la mia proposta scatenò fu tale che nessuno, compresa mia sorella, chiese il perché della mia scelta.
Peraltro, io non avevo un perché, e questa sensazione di vuoto la ricordo molto bene. Avevo solo il desiderio di vestirmi da fatina, mi piaceva quel tipo di vestito tutto leggero e ricco di veli e poi l’idea di poter fare le magie e realizzare i desideri mi faceva star bene. Non riuscivo a capire tanta sorpresa. Mia sorella, di tre anni più grande di me, si sarebbe vestita da cowboy. Era il secondo anno che sceglieva quella maschera con tanto di pistole, cinturone e cappello di cuoio e nessuno aveva mai detto niente. Non era molto femminile… anzi, era proprio da maschio. Ma nessuno aveva detto niente: allora perché io non potevo vestirmi da fatina? Dopo una settimana di silenzio sull’argomento ho cercato tutto il coraggio necessario dentro di me e ho domandato a mia madre se allora avrei potuto vestirmi da fatina. Era venuta a prendermi a scuola come ogni venerdì, gli altri giorni veniva la domestica a prendermi perché mamma era impegnata con le sue attività di beneficienza. Insieme alle sue amiche frequentavano un circolo sportivo dove si svolgevano molte altre attività oltre quelle sportive e mia mamma che di sportivo non aveva niente finalmente si trovava nel posto giusto dove incanalare le sue energie. Se avessi conquistato il suo si avrei avuto la strada spianata con mio padre che non aveva mai abbastanza tempo da dedicare ai parapiglia familiari, e avrei potuto sperare di cercare il vestito nell’ultimo fine settimana utile prima del giovedì grasso, giorno in cui la scuola aveva programmato la festa mascherata.
Mi arrivò un sonoro NO. Mia mamma, senza nemmeno guardarmi in faccia mi disse che non poteva assecondare la mia richiesta e soprattutto che non capiva proprio perché la facessi una richiesta tanto strana. Cercai di spiegarle che mia sorella si vestiva da maschio per il secondo anno e che nessuno aveva mai detto niente, nemmeno che era strana. Non capivo perché invece era così strano che volessi vestirmi da femmina e me lo volevano impedire. Ne venne fuori un confronto serrato con mia madre che cercava di mantenere la calma, ma ci riusciva malissimo, ed io che strepitavo insistendo per il mio vestito da fatina. Non seppe darmi una spiegazione a me comprensibile, continuava a dire a tono sempre più alto e voce sempre più asciutta che non stava bene. Lo ricordo benissimo… se non avesse urlato sarebbe sembrata una cantilena “Non sta bene che ti vesti da femmina!”. Solo questa frase, ripetuta e ripetuta.
La sera mio padre non chiese niente e io non dissi nulla ero ancora arrabbiatissimo e non mi andava di parlare. Così continuò ancora il gioco del silenzio. Mia sorella era contentissima con le sue pistole nuove di zecca e vedendo i miei occhi rattristati ad un certo punto disse: “Se ti piace tanto fare le magie e realizzare i desideri perché non ti vesti da mago?” La domanda arrivò sul tavolo da pranzo come la croce rossa in un avamposto di guerra, mia madre e mio padre si tolsero dal viso la maschera del silenzio e cavalcarono subito l’idea dicendo che era bellissima e che il mago era come la fatina… che avremmo cercato la maschera il giorno dopo… che avremmo comprato la più bella… che avrei potuto fare tutte le magie che volevo e realizzare tutti i desideri che mi avrebbero chiesto. Il quel momento ho capito, lo ricordo benissimo, che non avevo spazio per insistere, l’argomento era chiuso, o mi facevo piacere quella maschera o restavo senza, e così decisi… e mago sia! Non diedi mai molto peso a quell’evento, forse avrei dovuto ma forse ero troppo piccolo, e non diedi mai peso nemmeno al fatto che spesso per giocare indossavo i vesti di mia sorella e lei rideva come una pazza finché non ho iniziato a giocare con i suoi primi trucchi da ragazzina e allora si arrabbiava tantissimo. Ma di questi giochi i miei genitori non sapevano nulla.
Sono sempre stato un ragazzino delicato, non di salute, ma di modi, attento agli altri e molto riservato. Vestivo bene, forse un po’ diverso dagli altri ragazzini ma io mi sentivo a mio agio. Qualche problema è iniziato alle medie con i miei compagni di classe molto più scavezzacollo di me, mi prendevano in giro perché non giocavo a calcio, non dicevo le parolacce, non disturbavo le ragazzine… mi chiamavano il signorino. Andavo molto bene a scuola, mi piaceva studiare e quindi i miei genitori non avevano problemi con me, anzi mi lasciavano molto libero ma spesso non sapevo cosa fare di tutta la mia libertà finché non ho conosciuto una ragazzina che aveva le mie stesse passioni. Le piaceva guardare il cielo, studiare le costellazioni, vagare nell’universo con il telescopio alla ricerca dei propri sogni. Molto spesso andavamo al cinema o a cercare qualche libro in libreria che poi ci scambiavamo e commentavamo. La cosa andò avanti per un bel po', forse un anno, le dovevo piacere molto, e non me ne sono accorto anzi, oggi posso dire che non ci ho proprio pensato. Stavo bene con lei e mi bastava, anzi ero felice, ma a lei non bastava affatto. Voleva di più ma in quel momento non ero in grado di darle nulla. Non sentivo la stessa attrazione, anche se eravamo ragazzini e quindi sto parlando di qualche bacetto o toccatina ma niente, non ci fu niente, e lei alla fine se ne andò lasciandomi solo con i miei dubbi dei quali non le avevo mai parlato. A tredici anni i primi punti interrogativi cominciavano a essere ben presenti nei miei ragionamenti ma non sapevo a chi parlarne e come parlarne, cosa dire. Cercavo delle giustificazioni dentro me stesso, non sapevo bene nemmeno per cosa, ma la sensazione che mi rimaneva addosso era di essere diverso dai miei amici. Arrivato al liceo, dopo l’estate, le cose cambiarono, o almeno per un attimo l’ho creduto. Passai le vacanze dai miei nonni. Mio nonno mi portava a pesca al fiume e mi raccontava sempre storie di guerra, della guerra che aveva combattuto lui, della fame patita, del freddo e della paura, anche se in campagna la fame si era sentita meno perché c’era la terra che dava da mangiare. Zappavamo insieme, piantavamo, pulivamo l’orto, governavamo le galline anche insieme ai ragazzini del podere accanto e poi quando erano finiti i lavori della giornata andavamo in bicicletta in su e giù per le colline. Eravamo in cinque, più o meno tutti coetanei, solo uno un po' più grande, un paio d’anni non tanto, ma a quell’età son tanti. Lui aveva avuto già la sua prima esperienza con una giovane donna del paese a cui piacevano tanto i ragazzi molto giovani, le piaceva farli diventare uomini… Così Antonio raccontava e così era andata con lui, diceva. Da quel giorno si sentiva uomo, diceva. Si chiamava Annuccia, la conoscevano tutti in paese, aveva un banco di frutta e verdura al mercato del giovedì e poi gli altri giorni vendeva i suoi prodotti direttamente al suo orto. Un giorno Antonio era andato da lei per comprare le cose che gli aveva chiesto la madre e l’aveva trovata in sottana che si spazzolava i capelli, era rimasto incantato dalle gambe che sbucavano fuori da quel tessuto tanto leggero e morbido e lei lo aveva provocato fino a farlo sudare. I nostri tramonti, prima di andare a cena, spesso li passavamo ad ascoltare quella storia e ogni volta Antonio aggiungeva piccoli particolari. Gli aveva fatto togliere la maglietta… e le scarpe. Era rimasto solo con i pantaloncini corti in mezzo alla stanza. Lei lo guardava e gli girava intorno mettendogli le mani nei capelli fino a che… non ha più resistito e l’ha presa. Raccontava e diceva proprio così – l’ho presa, l’ho presa e basta! Con quella voce ancora da ragazzino che mi è rimasta nella testa. Un giorno, verso la fine della vacanza, mancavano poco al rientro in città, anche io sono andato a comprare delle cose dalla Annuccia, anche se i nonni non mi avevano chiesto niente. Non l’ho trovata in sottana e non faceva nemmeno così caldo però lei ha capito subito perché ero lì a quell’ora insolita e io non ho dovuto fare niente. È stato come ballare il tango, ti devi lasciare andare quando balli il tango, devi fidarti del tuo cavaliere e non devi fare altro. E così è stato, mi sono lasciato andare, trasportare da quella donna nella curiosità che mi aveva messo Antonio e in quel momento mi sono sentito uguale agli altri ragazzini. È stato un attimo. E l’attimo me lo sono goduto. Ho capito però cosa significasse veramente per me quel vestito da fatina e ho dovuto farci i conti, da solo. Ancora oggi, e son passati vent’anni, parlare con i miei genitori, raccontare chi sono, come sono… i miei desideri, i miei sogni, languisce nel sottobosco di “un non voglio sapere più di quel che appare!”.
Dalla Rubrica Storie nel cassetto di Luisanda Dell’Aria
Roma 19 maggio 2022