Il primo mese era stato il più difficile ma non per il lutto in sé, per la sua dipartita. Per il buio che arrivava presto e lo costringeva nei suoi pensieri.
Aveva paura, paura di essere abbandonato dal suo cuore al quale aveva confidato i suoi segreti, la sua colpa, il suo tormento. Non riusciva a parlarne con nessuno e ogni volta che qualcuno parlava di lei, proponeva qualcosa per proseguire la strada che aveva tracciata, le sue asperità più appuntite emergevano senza alcuno sforzo.
Gli veniva naturale essere ruvido, limitare le risposte a poche sillabe, a volte una sola: NO! Non riusciva a uscire fuori dal pozzo nel quale era caduto il giorno della sua morte. Non aveva creduto sarebbe arrivata così presto, non aveva creduto essere imminente.
Occhi e bocca chiusi in un ghigno fino all’ultimo, non una carezza, un bacio, un sono con te, scusami! Niente, se non quando il corpo aveva iniziato ad abbandonarla e le forze della vita si erano nascoste, timorose questa volta, di fronte alle forze della morte.
Allora, solo in quel momento, aveva capito che il suo battito d’ali si era posato per l’ultima volta.
Sdraiato a terra, davanti a tutti, vicino al suo letto, a far vedere il suo dolore. Poverino, diceva la madre, poverino diceva il padre.
La spettacolarizzazione del suo dolore non lo aveva aiutato nei giorni, uno dopo l’altro, ineluttabili nel loro affacciarsi.
“Mi porti l’acqua, per favore?”
“Perché, tu non puoi prenderla?”
Gli tornavano alla mente le parole tante volte volate nella stanza che ora lo vedevano solo, avvolto dalla pesantezza portata dalla notte.
Non riusciva a comprendere la serenità dei bambini. Il suo parlare secco, perentorio, arido, però, li faceva tracimare nella tristezza. Un cono di luce li avvolgeva. Lui era ai margini, dell’ombra del cono. Tentava di entrare, il cono si spostava e lo lasciava solo.
Solo doveva stare, solo doveva respirare, solo doveva pagare il tributo.
Loro, i piccolini, parlavano della mamma molto più spesso di quanto lui aveva immaginato.
Nella sua fantasia di un dopo che aveva pensato lontano si era convinto sarebbe stato spugna perfetta del dolore che li avrebbe colti. Loro sì, non consapevoli.
Solo il suo cuore disonesto, la sua mente ottusa, i suoi occhi incastrati nella polvere di un presente non vero, la sua anima superba, potevano non essersi accorti di quanto la fine bussasse forte alla porta di sua moglie.
La primavera portava luce e l’assedio del buio allentava l’ostinatezza della sua coscienza, scalciante e urlante attenzione. Restava lì, silenziosa e pronta all’arrivo delle ombre. Sarebbe uscita, l’avrebbe interrogato.
Ogni giorno seguiva l’altro, era convinto, il tempo lo avrebbe fatto sentire meglio. Ma le sue asperità erano troppo appuntite e lui stesso, distratto dalla superbia con la quale da sempre conviveva, si faceva male. Le sue parole lo graffiavano quando parlava di lei, sentiva il suo viso secco, senza espressione, la pelle lacerata. Era l’emozione nera che provava.
Quello che vedevo io guardandolo da lontano era un uomo spento, vuoto, assente, sospeso nell’attesa. Aveva creduto che spogliare la casa della sua presenza sarebbe stato di aiuto a lui, ai figli. Aveva creduto che armadi vuoti e ricordi riposti in soffitta avrebbero spento la presenza trasformandola in assenza. Se non vedi non soffri. Aveva creduto.
Il respiro amoroso, caldo, materno, era restato. Ne erano impregnati i bambini, ogni loro gesto, ogni loro sorriso. Anche cambiar casa non lo avrebbe aiutato, anche cambiar casa non avrebbe raffreddato il caldo materno. Il respiro amoroso sarebbe restato.
Il cono di luce sui bambini, ma lontano da lui, era presente. Presenza presente, avvolgente, destabilizzante per lui, amore per i bimbi.
Non capiva cosa gli succedeva, non parlava, non trovava le parole. Non trovava la forza di piangere il dolore per sé stesso, per come era, per quello che non riusciva a provare. Ruvido e aspro trascorreva la vita, non viveva la vita, non era capace, non ne era mai stato capace e l’incontro con lei aveva scoperto l’essenza di sé stesso, l’incapacità a godere dell’incanto della vita. Sapeva affrontare problemi meccanici assenti di sentimento. Ogni emozione era un nervo scoperto e ora si sentiva senza pelle. Nudo, vulnerabile. Copriva ogni lembo di pelle con l’orgoglio di uomo che nessuno credeva essere ferito. Le lacrime, la notte, bruciavano il suo viso, tanto erano dense.
Era ferito da sé stesso e nemmeno lui lo capiva.
Il tempo passava, il suo sorriso restava sghembo, i suoi occhi prigionieri del passato. Solo parlare lo avrebbe aiutato. Solo aprire la porta alla coscienza e parlare lo avrebbe aiutato.
“Lasciami andare.” Le diceva nella notte.
“Non sono io a tenerti.” Gli rispondeva.
Prigioniero delle ombre trascorreva le notti in compagnia di spirali di fumo.
“Lasciami andare.” Continuava a dirle. “Sono stanco, sfinito.”
E lei ancora. “Non sono io a tenerti, apri la porta, ti sentirai meglio. Parla, ti sentirai meglio. Guardati e riconosciti, ti sentirai meglio.”
“Non so più chi sono.”
“Non lo hai mai saputo, guardati ora. Osservati e prova a parlarti, a riconoscerti.”
“Lasciami andare.”
“Non sono io a tenerti.”
Luisanda Dell’Aria
Roma 17 aprile 2024